Parliamo oggi di una tematica molto importante nel modo del fashion: i rischi e le conseguenze del fast-fashion sul sistema economico e sociale.
La necessità di fermare la bulimia degli acquisti nasce quando i brand dell’alta moda hanno deciso di entrare nel mondo del fast fashion, in cui gli abiti invenduti vengono principalmente buttati in discarica se non incendiati. In Francia il rimedio di incendiare i capi è stato bandito.
Sicuramente, c’è necessità di porre rimedio a questa crisi che poi incide in maniera importante sul clima e anche sulla situazione sociale. Se ne è discusso in occasione della Fashion Revolution Week 2002.
Quindi ci sono tantissime situazioni di diseguaglianze e squilibri che ogni tanto esplodono in vere e proprie rivolte operaie, dovute alla totale assenza di tutele e alle paghe da fame.
Un problema collegato è quello della delocalizzazione. Quando si sono aperti i confini della Cina, le fabbriche hanno delocalizzato la produzione. Se non possono essere presenti lì in loco, danno incarico a degli enti o comunque delle aziende con cui stabiliscono dei rapporti e poi delegano.
Il fatto di delegare sicuramente non comporta conseguenze positive dal punto di vista sociale: il fabbricante in loco paga veramente molto poco. Ne abbiamo anche parlato con Gianluca Tacchella di Carrera tempo fa, mentre giusto pochi giorni fa ne parlavo con Aaliyah Saleh, creatrice a soli 15 anni del brand Divapowerdp.
Aaliyah, proprio per andare a odiare le crudeltà che sono dietro a queste magliettine che compriamo a pochi euro, ci ha detto che, come ragazza, ha voluto indagare e ha visto tutto quello che c’è dietro la moda e dietro una banale magliettina.
Il danno non è solo sociale ma anche ambientale. I tessuti con cui vengono prodotte le maglie o i jeans vengono tinti con sostanze pericolose.
L’obiettivo italiano ed internazionale che si era precisato era Zero Discharge. Greenpeace l’aveva iniziato nel 2011 coinvolgendo diverse aziende. Molte hanno aderito a questa detox-campaign, ma non tutte. Quindi l’obiettivo si era posto, che sarebbe dovuto arrivare nel 2020, non è raggiunto e quindi c’è ancora molto da fare.
Per il supporto e la sensibilizzazione a questa tematica sono nate delle fondazioni. È nata anche la Fashion Revolution in occasione proprio dell’evento terribile successo nella Rana Plaza.
Qual è il panorama italiano su questa tematica? Esistono piccoli brand molto interessanti che cercano di eliminare al minimo gli sprechi, utilizzano pezzi che giacciono in magazzino o riciclano materiali di scarto. Purtroppo, invece, le grandi aziende utilizzano del cotone non sostenibile.
La delocalizzazione ha di fatto allontanato il problema. Noi che siamo in Italia e vogliamo fare un acquisto, prima di acquistare capi a pochi euro dobbiamo pensare a cosa c’è dietro tutto questo.
La velocità della moda low cost che ci spinge a comprare sempre più frequentemente ha drogato questo sistema, svilendo anche la creatività. Spesso queste aziende fast fashion copiano il prodotto o cercano di imitarne il design, svalutando anche la proprietà intellettuale del prodotto finale.
Allora questa abitudine dell’abito usa e getta ha fatto scoppiare i nostri armadi. Quello che diciamo noi in Fashion è che la rivoluzione deve partire prima dell’acquisto: quando vuoi uscire a fare shopping o quando sei in fissa per andare a comprare qualcosa di nuovo prima dovresti valutare quello che già hai nel tuo armadio, magari lì nell’angolino impolverato, e valutare se questo acquisto è funzionale, se veramente questa cosa ti serve o se è un puro capriccio.
Quello che facciamo noi con Fashioning è divulgare non solo best practice, ma anche le Stories dei Brand italiani sostenibili che comunque sono sul podio per quanto riguarda le buone pratiche.
Podcast ascoltabile in web al link
Contatti ariannageronzi.sgush.cards
Tutte le sue opinioni
Fruibile anche in Podcast.B-Farm.it nei Social.B-Farm.it per ricevere in Whatsapp o Telegram richiama Iscrivi.B-Farm.it